Fin dall’antichità moltissime popolazioni tennero traccia del moto apparentemente irregolare di quella strana sorgente luminosa dal colore rosso intenso. Gli antichi romani associarono al suo colore il dio della guerra, Marte (Ares per i greci). Gli Incas lo chiamavano Augakuh, e i babilonesi lo chiamavano Nirgal: non a caso questi nomi compaiono nella geografia della superficie marziana (Nirgal e Augakuh Vallis).
Dall’osservazione del suo moto nella volta celeste, gli antichi poterono dedurre alcune cose riguardo al pianeta: innanzitutto il periodo siderale, ossia quello in cui torna al suo posto rispetto alle stelle, è di 687 giorni terrestri, o 1.88 anni. Inoltre c’era qualcosa di strano nel suo andamento nel cielo: ogni tanto sembrava andare a ritroso, disegnando come un anello nel cielo. Era un fenomeno molto complesso da spiegare nell’ambito del modello geocentrico, e non fu prima di Copernico, nel 1543, che se ne capì il significato.
Con il modello eliocentrico, infatti, diventa chiaro che quegli anelli disegnati nel cielo non siano altro che i momenti in cui la Terra, che gira attorno al Sole quasi nella metà del tempo impiegato da Marte, raggiunge e oltrepassa il Pianeta Rosso. Una cosa del tutto simile al superamento tra due automobili in autostrada: se un’automobile viaggia al doppio della velocità di un’altra, chi si trova nella prima vede la seconda avvicinarsi in un primo momento, e poi allontanarsi dopo una breve fase in cui l’automobile sembra fermarsi ed invertire rotta.
Osservazioni telescopiche
Le prime osservazioni di Marte con l’ausilio di un telescopio si devono senz’altro a Galileo Galilei. Tra il 1609 e il 1610, l’astronomo pisano per primo utilizzò lo strumento per scrutare gli oggetti celesti e senz’altro osservò anche il pianeta rosso, per quanto con il suo strumento rudimentale poteva a malapena vederne un disco rosso-arancione non molto definito.
Christiaan Huygens, nel 1610, poté senz’altro fare di meglio. Osservò una macchia scura sul disco che probabilmente corrisponde alla regione di Syrtis Major. Nel 1666 Gian Domenico Cassini per primo vide i poli ghiacciati che furono poi osservati più nel dettaglio dal nipote Giacomo Maraldi. William Herschel osservò il pianeta tra il 1777 ed il 1783, calcolando i circa 30° di inclinazione orbitale e il periodo di rotazione di quasi 25 ore. Dall’osservazione di alcune variazioni nell’aspetto della superficie, da lui (correttamente) attribuite alla presenza di nubi, Herschel dedusse anche la presenza di una tenue atmosfera.
Nel 1840 Johann Heinrich von Mädler e Wilhelm Beer pubblicarono una loro prima mappa di Marte, sfruttando la migliore visibilità del pianeta durante un passaggio ravvicinato tra Marte e Terra. Successivamente vennero fatte altre descrizioni dei dettagli superficiali di Marte, e la nomenclatura attualmente utilizzata si basa sulla mappa del 1877 di Giovanni Schiaparelli. In quell’anno vi fu anche un altro passaggio ravvicinato, in cui furono scoperte, tra le altre cose, anche le lune di Phobos e Deimos da Asaph Hall. Schiaparelli, nelle sue osservazioni, vide dei dettagli scuri che interpretò come dei canali di non chiara origine. La traduzione inglese errata in canal (che indica specificatamente i canali artificiali) invece che in un più generico channel, suffragò un’idea che già si stava insinuando nell’opinione pubblica e nel dibattito scientifico di quegli anni: la presenza di una civiltà marziana. Ad approfondire gli studi su questi canali di tale fantomatica civiltà pensò l’astronomo statunitense Percival Lowell che non si limitò a vedere canali, ma vide anche delle macchie di vegetazione ai loro bordi. La presenza di questi canali e della civiltà marziana che li aveva costruiti restò un argomento controverso e fu solamente con l’esplorazione spaziale che si poté porre fine alla discussione.
La prima ondata spaziale
Gli anni tra il 1962 ed il 1972, agli albori dell’astronautica (ricordiamo che lo Sputnik, il primo satellite artificiale in orbita, è stato lanciato solo alla fine degli anni ’50), sono stati caratterizzati da una prima, fondamentale, ondata di interesse esplorativo verso il Pianeta Rosso. Nel 1965, infatti, la sonda Mariner 4 passò vicino Marte. Eseguì un flyby, un sorvolo del pianeta, immortalando le prime immagini ravvicinate del pianeta e trasmettendo un segnale radio verso la Terra attraverso la sua atmosfera (la prima analisi dell’atmosfera di Marte ottenuta tramite dati da satellite). La Mariner 4 trasmise verso la Terra 22 immagini dalla superficie marziana. Le sonde Mariner 6 e 7 fecero poi qualcosa di piuttosto simile e il quadro dell’ambiente marziano si fece piuttosto chiaro: Marte era un deserto ricoperto di crateri, non c’erano canali, non c’era vegetazione e, soprattutto, non c’erano marziani. Finiva così la diatriba lowelliana.
La Mariner 9 fu il primo satellite marziano vero e proprio. Entrò in orbita attorno al pianeta nel 1971, arrivandovi nel bel mezzo di una tempesta di sabbia globale (GDS), che per la prima volta poté essere studiata da vicino: la sabbia nascondeva tutta la superficie, innalzandosi fino a circa 70 km di altitudine e riscaldandola in un tremendo effetto serra. Quando la tempesta si dissolse, fu possibile osservare da vicino i dettagli superficiali del pianeta e costruire la prima vera e propria mappa marziana. Le sommità dei vulcani, la rete di valli, i cappucci polari con le loro stratificazioni di ghiaccio e la differenza tra terreni più antichi e ricoperti di crateri e quelli più giovani e rielaborati dai processi geologici, tutti gli aspetti fino a quel momento solo ipotizzati della superficie di Marte acquistavano una loro concretezza.
L’epoca Viking
La coppia di sonde Viking 1 e 2 furono lanciate nel 1975 e arrivarono nel 1976 presso il Pianeta Rosso. Due satelliti e due lander diretti verso la superficie marziana. L’obiettivo principale? Trovare tracce di vita presente o passata nel suolo marziano. Il programma Viking non trovò tracce di vita, ma accrebbe incredibilmente le nostre conoscenze del pianeta, raccogliendo dati fino a novembre 1982, quando si persero i contatti anche con l’ultimo modulo (Viking Lander 1).
Le immagini e i dati delle sonde Viking rivoluzionarono la nostra conoscenza di Marte. Si comprese come moltissime formazioni geologiche superficiali non fossero altro che il segno evidente della presenza passata di acqua su Marte, come le valli o i cosiddetti outflow channels, canali dovuti all’improvvisa fuoriuscita di acqua dai bacini. Si comprese quale tipologia di vulcanismo dovesse interessare i vulcani marziani, trattandosi di vulcani a scudo del tutto simili a quelli hawaiani. Oltre a ciò si scoprì molto sulle calotte polari, sulla struttura termica e sulla composizione dell’atmosfera, sulle tempeste di sabbia.
Marte oggi
Dopo il programma Viking, per alcuni anni l’interesse nei confronti del Pianeta Rosso scemò. Nel 1991 ci fu un tentativo di ridare impulso all’esplorazione marziana tramite il Mars Observer, che fu però perduto. Il primo successo, che diede il via alla nuova ondata di esplorazione che continua tutt’oggi, fu il Mars Pathfinder, un lander e un rover (il primo dopo quelli lunari) che per due mesi nel 1997 accumularono dati direttamente dalla superficie marziana. L’anno successivo partì anche il Mars Global Surveyor, un satellite che per ben otto anni osservò Marte, permettendoci di approfondire le nostre conoscenze riguardo ai cicli globali dell’atmosfera, ai dettagli della superficie e alla storia del pianeta.
Da lì il passo fu breve. Il rinnovato interesse portò alla Mars Odyssey nel 2001, alla Mars Exploration Rovers (Opportuniy e Spirit) e alla sonda Mars Express dell’ESA nel 2003, al Mars Reconnaissance Orbiter nel 2005, al Phoenix Lander nel 2007, al Mars Science Laboratory Rover (Curiosity) nel 2011. E ancora: il Mars Atmosphere and Volatile Evolution (MAVEN) e l’indiano Mars Orbiter Mission nel 2014, il Trace Gas Orbiter della missione ExoMars 2016 dell’ESA. Nel 2018 è arrivata InSight, la prima missione sismologica marziana. Insomma, per descrivere tutte le scoperte relative a queste missioni servirebbero interi libri, ma è chiaro che il periodo storico in cui viviamo sia uno di quelli di massimo interesse nei confronti di Marte, e mai l’attenzione di ricercatori e pubblico è stata così elevata.
Le missioni attualmente attive sono TGO, MAVEN, MOM, Curiosity, MRO, MEX, 2001 Mars Odyssey e InSight. Tutti questi satelliti e rover costituiscono una rete di informazioni sul pianeta che fornisce un monitoraggio continuo e completo di tutti gli aspetti scientifici di interesse, permettendo ogni giorno sempre più di approfondire le nostre conoscenze riguardo il nostro vicino di casa planetario.
Marte domani
Il 2020 è un anno marziano. Sul versante NASA, nel corso di questo mese partirà il rover Perseverance con l’elicottero Ingenuity. Partirà anche Mars Hope, la prima sonda planetaria degli Emirati Arabi Uniti. Partirà la Huoxing 1, la prima missione marziana cinese. Nel 2022 sarà il turno di ExoMars 2022, che porterà un rover europeo e una piattaforma russa sul Pianeta Rosso. Nel 2024 la Jaxa lancerà la Mars Moons Exploration, una sonda con l’obiettivo di studiare Deimos e Phobos e raccogliere anche dei campioni da una delle due lune. Lo stesso anno, l’India lancerà la seconda versione del suo MOM.
Gli occhi dell’opinione pubblica sono comunque puntati ben più in là, all’esplorazione umana di Marte. Fin dai tempi di Werner Von Braun, si parla dell’esplorazione umana del pianeta come inevitabile prossimo passo dopo l’esplorazione lunare. In questi anni, comunque, anche nelle agenzie spaziali si sta iniziando a parlare seriamente di una missione di questo tipo: l’ESA prevede una missione umana su Marte negli anni ’30 del 2000, nell’ambito del programma Aurora di cui lo stesso ExoMars fa parte, e anche alla NASA si parla di sviluppo in tal senso nello stesso decennio; la CNSA parla del ventennio 2040-2060 e la Roscomos della finestra 2040-2045; il visionario Elon Musk sostiene che già nel 2024 la sua SpaceX inizierà un processo di colonizzazione del Pianeta Rosso; la ISRO indiana e la JAXA giapponese, non hanno per ora annunciato nulla in proposito.